Anita Cavaggioni fu il vero motore culturale di Lonigo per tutto il Novecento: nata nel 1901 e morta all’alba del nuovo millennio all’età di 103 anni, a Lonigo fu la fondatrice della Fidapa, del circolo degli Amici della Musica e della compagnia teatrale “La Soffitta”.
In questo articolo pubblicato sul Giornale di Vicenza di martedì 15 agosto 1989, la stessa Anita racconta con infinita dolcezza e grande dovizia di particolari la sua esperienza come maestra di prima nomina proprio ad Alvese.
Con un rapido calcolo, se era nata nel 1901 i ricordi qui narrati risalgono circa all’anno 1918. Nell’immagine in evidenza, una foto del 1913 che ritrae gli alunni e le maestre di fronte a quella che allora era sia la casa canonica e sia, al piano terra, la scuola dove da giovanissima anche Anita ha insegnato.
Tanti anni fa una diciassettenne insegnava in una frazione di Nogarole Vicentino
Ricordi d’una maestrina di prima nomina
Una quarantina di ragazzetti turbolenti con le “sgalmare” ai piedi – L’ospitalità presso una famiglia di contadini che, unica poteva offrire una camera da letto – Il “filò” invernale nella tiepida stalla – La sveglia al canto del gallo – Il lavoro per fare il formaggio nella “casara” – Un grande giorno: quello in cui si faceva il pane
di Anita Cavaggioni
Risalendo qualche tempo fa la strada che dalla valle del Chiampo porta ad Altissimo, mi è accaduto di ricordare un periodo da me trascorso in quei luoghi molto tempo fa. Invano cercai di ritrovare in quei monti la fisionomia di allora, né il paesino che mi aveva ospitato quale maestrina di prima nomina, appena diciassettenne. Il posto che mi era stato destinato si chiamava Alvese, frazione di Nogarole Vicentino, e più che un paese, era un agglomerato di case e contrade sparso lungo il declivio del monte.
Unico punto di identificazione era la minuscola chiesina, e la canonica nella quale, a piano terra, aveva la sua sede, in un unico locale, la scuola.
Tre classi elementari che si avvicendavano; al mattino la seconda e la terza assieme, e nel pomeriggio la prima. Il locale era squallido; oltre ai banchi sconnessi, la lavagna, qualche cartellone, la cattedra piuttosto malandata, ed una stufetta a legna che a malapena riusciva ad intiepidire l’ambiente. I ragazzetti, circa una quarantina in tutto, arrivavano a scuola imbacuccati in giacconi, non sempre a misura giusta, o avvolti in sciarponi di lana. Calzavano scarpe con suola di legno, le “sgalmare”, che meglio servivano a difendere i piedini dal freddo. Erano piuttosto turbolenti e poco disposti ad apprendere la poca scienza che io avrei dovuto impartire. Fra l’altro, ero una pessima insegnante, assolutamente inesperta, e probabilmente inadatta ad erudire quei piccoli ignoranti.
Certamente questo influiva negativamente anche su quel minimo di autorità che avrei dovuto rivestire. D’altra parte non cercavo neppure di migliorare le mie qualità, perché altri sogni si affollavano allora alla mia mente. Appena ottenuto il diploma magistrale, “la patente”, come si diceva allora, mi ero subito dedicata ad un intenso studio che mi avrebbe consentito di affrontare, dopo due anni, la licenza liceale, unica via allora possibile per entrare all’Università.
Lo studio del greco e del latino mi aveva subito affascinato, e mi aveva fatto totalmente dimenticare che all’inizio dell’anno, avevo inoltrato al Provveditorato una domanda di insegnamento. Una domanda fatta “proforma”, che ritenevo assolutamente inutile perché i posti disponibili erano pochissimi, e le concorrenti molte e con maggiori titoli di me, che di positivo avevo soltanto un diploma con una votazione piuttosto brillante. Invece ai primi di febbraio ed in virtù di questo diploma eccezionale, mi giungeva inattesa una nomina in ruolo, che proprio per i miei programmi futuri mi rendeva alquanto perplessa.
Ricordo che mi recai dal Provveditore di Vicenza al quale espressi il mio caso. Il Provveditore, una persona intelligente e comprensiva, apprezzò le mie aspirazioni, ma mi disse che sarebbe stato un peccato rinunciare a una nomina in ruolo, con tante richieste che c’erano, e che in ogni caso il mio programma poteva essere accantonato, o, forse, sviluppato con maggior profitto nei mesi di solitudine che mi attendevano ad Alvese. Mi disse anche che avrei dovuto adattarmi ad una residenza disagiata. E che fosse disagiata potei rendermene conto raggiungendo a piedi, dopo alcuni chilometri di strada di montagna accessibile soltanto ai muli, quella contrada sperduta. Così come mi resi conto che la solitudine sarebbe stata totale. L’unica persona con cui poter scambiare qualche parola era il cappellano, un uomo di mezza età, piccoletto e (rubizzo), e che per la sua propensione a consumare all’osteria qualche bicchiere più del necessario, era soprannominato dai parrocchiani “Don Quinto”.
Ero ospitata in una famiglia di contadini che, unica, poteva offrirmi una camera da letto. Una stanzetta squallidissima, lunga e stretta, con un’unica finestra angusta che dava sul cortile. L’arredamento era costituito dal lettuccio di ferro dove il materasso corredato da ruvide lenzuola di canapa; posava su un pagliericcio di foglie di granoturco: gli “scartozzi”, come si chiamavano, e che a notte scricchiolavano ad ogni minimo movimento. Non esisteva l’armadio, ma un lungo attaccapanni appeso al muro e protetto da una tenda che doveva difendere i vestiti dalla polvere. Un rozzo portacatino di ferro col catino e la brocca e sotto la finestrella, un tavolino su cui poterono trovar posto tutti i libri di studio che avevo portato con me.
La stanza era posta sopra la stalla del cavallo, e di notte mi giungeva il rumore degli zoccoli che scalpitavano sulla terra nuda, ed anche, attraverso le fessure del pavimento, l’afrore della stalla. A questo, che nei primi giorni mi sembrava insopportabile, dovetti poi abituarmi, perché condividendo la vita della famiglia che mi ospitava, ben presto ne condivisi anche gli usi. La famiglia presso cui ero alloggiata era numerosissima e patriarcale. Il vecchio nonno novantenne e quasi cieco, il padre, la madre e uno stuolo di figli, dal maggiore che viveva in casa con la giovane moglie ed un pargoletto di pochi mesi, ai due ultimi, ancora ragazzetti, che finite le elementari, già aiutavano nel lavoro dei campi, ed avevano due nomi piuttosto inusitati: Genesio e Virginio. Al mattino dopo la colazione a base di polenta abbrustolita sulla brace e salame, partivano per il lavoro, portando spesso con se la colazione per il mezzogiorno. Al ritorno dal mio primo turno di scuola, trovavo preparato sulla grande tavola un bianco tovagliuolo. Mi veniva servita una minestra di riso e tagliatelle, un connubio che non conoscevo, e, per secondo, un pezzetto di cotechino o una fettina di pancetta scaldata sulle brace.
La sera invece la famiglia si riuniva al completo attorno alla grande tavola, su cui veniva scodellata un’enorme polenta gialla fumante cotta sul fuoco nel paiolo di rame. In mezzo alla tavola una grande conca di terra ricolma di radicchio da campo che veniva condito col lardo sciolto al fuoco. Tutti intingevano nel recipiente comune, e consumavano allegramente questo pasto frugale e saporito. Dopo cena c’era, attorno al fuoco, il rito del Rosario. Intonava il padrone di casa, e tutti, uomini, donne e ragazzi, rispondevano biascicando i Pater-Ave conditi dai classici strafalcioni inevitabili nell’ignoranza del latino. Finito il Rosario, gli sposi e i ragazzi più piccoli andavano a letto. Gli altri passavano nella tiepida stalla a fare “filò”.
Dopo i primi giorni, poiché la mia stanzetta non riscaldata era gelida, presi anch’io l’abitudine di seguire gli altri nella stalla. Le mucche ruminavano tranquille nei loro stalli ben puliti. Nel centro sotto al fioco lume di una lampadina a petrolio si riunivano tutti i familiari. Le donne filavano la lana o lavoravano a ferri le calze. Gli uomini raccontavano barzellette o indovinelli o parlavano della campagna, delle bestie, della semina. Io cercavo di appartarmi in un angolo tranquillo con i miei classici latini: Cicerone, Virgilio, Orazio. Ma ero spesso distratta dal chiacchiericcio e poco combinavo.
Con l’aprirsi della primavera la mia vita cambiò un poco. Mi destava al mattino il chiarore che penetrava dalle imposte sconnesse, o, ancor prima, il canto del gallo. Dopo un poco sentivo la massaia che con un suo particolare richiamo, radunava attorno a sé le galline e distribuiva equamente il pastone o il grano. Aprivo allora la finestra e mi divertivo a osservare le lotte che galline e galletti facevano per accaparrarsi i bocconi migliori. Interveniva spesso il gallo, fiero ed indiscutibile padrone, che con una beccata riduceva le più proterve all’ubbidienza. Si soffermava spesso per una passatina amorosa, che quelle subivano tutte appiattite sul terreno, mentre il maschio si volgeva a nuove avventure. Con la primavera i campi ostentavano il verde tenero del grano; nei clivi erbosi occhieggiavano le margherite e gli altri fiori di campo, mentre sui cigli dei ruscelli spuntavano violette, primule e pervinche. Quella semplice vita campestre mi piaceva e mi creava attorno un’atmosfera di tranquillità che mi rasserenava.
Dietro la casa sorgeva una costruzione più piccola: la “casara”. I contadini vi portavano il latte che raccolto nei grandi bacili, veniva sgrassato. Con la crema densa battuta con la “zangola”, si preparava il burro. Il resto era posto a bollire nei grandi calderoni di rame; ne usciva il formaggio che era passato ad asciugare in grandi forme di vimini. Lo scolo veniva dato ai maiali, la ricotta raccolta in sacchetti di tela e consumata fresca. L’odore acre del latte cagliato e del formaggio, solletica nella mia memoria il profumo del pane fresco che veniva fatto in casa e cotto nel gran forno riscaldato con la legna di rovo raccolta dalle siepi sulle prode dei fossi.
Il giorno del pane era un grande giorno. Fin dal primo mattino erano in movimento tutte le donne di casa. Il lievito preparato la sera avanti veniva unito nella madia alla farina, e lavorato a forza braccia fino a rendere la pasta morbida ed omogenea. Poi con straordinaria abilità le donne lo riducevano in forme, i “panetti” che uniti due a due, venivano poi posti sulle assi e passati al forno. Il pane emanava una fragranza consolante che solleticava l’appetito. Una parte veniva poi rimessa nel forno tiepido a “biscottare” e quindi posto nelle grandi ceste foderate da nitidi panni, appese ai travi della cucina per essere consumato nei giorni seguenti.
Ma se gli odori rievocano nella mia memoria quegli anni lontani, non altrimenti ritornano all’udito certi rumori particolari. Ad esempio il fruscio prodotto dalle foglie del gelso, dal rodìo dei bachi da seta (“i cavalieri” che mangiavano “di furia”). Un fruscio sommesso e pur vivissimo, che rompeva il silenzio dello stanzone in penombra nel quale i bachi si preparavano alla loro fatica. Dopo pochi giorni, posti a lavoro sulle fascine di legna preparate all’intorno, avrebbero costruiti quei bellissimi bozzoli dorati che le donne di casa raccoglievano nelle lenzuola di bucato, per essere poi portati ai mercati di Chiampo, Arzignano o Lonigo, regno dei setaioli dell’epoca.
Immagini che si ricollegano ad una vita semplice e serena di cui oggi non esiste più nemmeno il ricordo.
Con la fine dell’anno scolastico i miei piccoli allievi raccolti nel cortile antistante alla scuola, vennero a salutarmi con le manine cariche di fiori. “Riverisco signora maestra, riverisco!”. “Arrivederci piccoli, studiate e siate bravi!”. Ma non li rividi più perché ad Alvese non ritornai.
L’anno dopo chiesi il trasferimento ad una residenza più comoda per me e per la preparazione al grande traguardo a cui aspiravo: la licenza di maturità classica, che avrei ottenuta l’anno dopo allo “Scipione Maffei” di Verona.