I murales nelle contrade
Per la realizzazione dei murales nelle contrade di Alvese si ringraziano sentitamente per la sensibilità ed il generoso contributo le seguenti aziende del territorio:
Come nasce il progetto
La parola “murales” deriva dallo spagnolo mural e si usa anche nella lingua italiana, anche impropriamente al singolare, per indicare opere pittoriche realizzate su una parete in muratura.
L’idea di arricchire le contrade di Alvese con delle pitture murali nasce nell’estate del 2009, e come tutte le cose belle nasce a tavola, da una serata di amicizia. Tutto ha avuto inizio da una semplice domanda: perché la gente dovrebbe visitare Alvese?
Questa provocazione ha dato impulso ad un obiettivo: realizzare un murales in ognuna delle sette contrade della frazione, raccontando i mestieri e la vita contadina di un tempo attraverso delle pitture murali, creando un itinerario accessibile anche a persone con limitata mobilità o con disabilità motorie. Un modo per arricchire di bellezza e di cultura il territorio, donando un valore aggiunto agli scorci antichi delle contrade ed alle ordinate abitazioni moderne in cui vive la gente di Alvese.
I murales nelle contrade di Alvese
In realtà il primo murales risale già all’anno 2000 e si trova in contrà Rondini: è una raffigurazione bucolica del bestiame portato a pascolare in montagna, opera donata dall’artista Mario Melone alla famiglia Leonardi. Da questo esempio già esistente, prendendo spunto dai murales di Cibiana di Cadore nel bellunese, l’iniziativa è partita con Luciana Faedo in qualità di promotrice e fatta propria sin da subito sia dall’associazione Gruppo Alvese Onlus sia dall’Amministrazione comunale.
Pian piano il paesetto si è quindi arricchito di affreschi e dipinti che raccontano i mestieri e le tradizioni di un tempo con un particolare legame con la contrada: la miniera, la casàra, il pascolo, la carbonàra, copare el màs-cio, el scarpàro, la lìssia, la vendemmia, la vecchia scuola…
Il progetto ha superato di gran lunga le aspettative iniziali e sta proseguendo con risultati positivi ancora oggi grazie all’iniziativa degli abitanti. Nel tempo numerosi artisti locali hanno prestato la loro opera, quasi tutti gratuitamente, entusiasti di avere l’opportunità di tramandare antiche tradizioni e il ricordo della vita quotidiana di una volta, ricca di valori genuini e ancora attuali. Un doveroso ringraziamento per aver contribuito alla realizzazione dei murales va alle aziende “Cori srl”, “Se.Pi.”, “Artigiana Marmi” e “Acque del Chiampo”.
Il libro “Alvese e i suoi murales”
Nel corso del 2017 su iniziativa di Igino Rigodanzo è maturata l’idea di pubblicare un libro che racconti i murales, le storie e gli aneddoti che li hanno ispirati.
Con le foto di Piero Rasia, i testi e le ricerche di Enrico Corato e la collaborazione di Luciana Faedo, il 23 dicembre l’opera è stata presentata ufficialmente nella sala consiliare del municipio di Nogarole Vicentino, alla presenza di un bel numero di persone e anche alcuni artisti che hanno realizzato i murales.
Per saperne di più sul libro e scoprire dove trovarlo clicca qui.
II progetto prosegue
Sono molti i temi che ancora si possono sviluppare, come ad esempio l’allevamento dei bachi da seta, che garantiva alle famiglie il primo guadagno della stagione, oppure le rogazioni, lunghe processioni che coinvolgevano tutta la popolazione allo scopo di chiedere un raccolto abbondante e la protezione divina sul lavoro agricolo, oltre che per tenere lontane le calamità naturali. Altri temi che sogniamo di rappresentare sono la costruzione della chiesa di Alvese, il bosco e il taglio della legna, la caccia, la raccolta dei marroni in autunno, il mais e la farina che arrivano in tavola come polenta fumante, il rischioso mestiere dei contrabbandieri e la preparazione dei caùci, un piatto di origine cimbra tipico di Alvese giunto fino a noi tramandato di generazione in generazione.
Il progetto dunque prosegue: se un artista o un benefattore desiderasse donare un’opera, il Gruppo Alvese è sempre a disposizione a questi contatti per aiutare a sviluppare il tema, fornire il materiale necessario e trovare una location adatta.
Inoltre nel corso del 2018 sarà organizzato un concorso di pittura ad acquerello con lo stesso tema – le tradizioni ed i mestieri rurali di un tempo – al fine di promuovere l’iniziativa e stimolare nuove idee per il futuro del progetto.
La vecchia scuola – centro di Alvese
Attraverso questo dipinto si vuole ricordare la vecchia scuola elementare di Alvese, con gli alunni in classe ad ascoltare la lezione della maestra e altri invece all’aria aperta, intenti a rincorrersi e a giocare a nascondino durante un immaginario momento di ricreazione.
L’edificio che ospita il murales era appunto la scuola elementare della frazione, costruita negli anni Cinquanta e che si componeva di due piccole aule, attive fino al 1974. Dal 2010, dopo l’impegnativo restauro e la riqualificazione operata dall’associazione Gruppo Alvese Onlus, la vecchia scuola ospita il circolo per i soci, prezioso luogo di ritrovo e di aggregazione dopo la chiusura dello storico bar pizzeria del paese.
Prima della costruzione di questo edificio da parte dell’Amministrazione comunale, i bambini di Alvese con le loro maestre furono ospitati in diverse sedi: dapprima in un edificio dietro la chiesa (oggi cappellina dell’Eremo della Pace), poi ai Bertoli nella vecchia osteria, quindi poco sopra la chiesa nell’osteria bottega da Pistola e infine di nuovo ai Bertoli.
Autore: Pamela Randon
Collocazione: centro di Alvese, ex scuola elementare oggi circolo del Gruppo Alvese Onlus
Data: autunno 2011
Misura: m 7,80 x 4,50
Tecnica: pittura su muro
Realizzato con il contributo dell’Amministrazione comunale di Nogarole Vicentino
Nota dell’artista:
La decorazione pittorica vuole ricordare la funzione di questo edificio negli anni del dopoguerra, quando era adibito a scuola primaria costituita da due piccole classi di poche unità di studenti. Nel riquadro principale, delimitato da una cornice di marmo che accomuna tutti i murales di Alvese, ho voluto dipingere in toni di colore caldi e nostalgici una tipica mattinata di scuola di quel periodo, con la maestra che spiega e cerca di coinvolgere i propri alunni dagli sguardi furbetti e trasognanti. Per richiamare l’attenzione alla scena principale si è pensato di espandere il dipinto fino a coinvolgere anche il lato lungo dell’edificio, realizzando un momento di divertimento dei bambini come il gioco del nascondino sotto un albero di marroni, a ricordo della festa più importante di Alvese.
Autore: Virgilio Antoniazzi
Collocazione: contrà Bertoli
Data: 22 giugno 2013
Misura: m 2,80 x 1,80
Tecnica: affresco
Realizzato con il contributo del Gruppo Alvese Onlus e di Veneto Insieme
La miniera e la calcara – contrà Bertoli
Nell’affresco, l’artista ci propone di rivivere una scena del passato con la vecchia miniera di carbone e la calcàra con cui gli abitanti della contrada producevano la calce. Sullo sfondo, la chiesa di Alvese e una rappresentazione dell’intera contrada Bertoli come si presentava un tempo all’occhio dei passanti.
L’attività di estrazione di carbone nella miniera dei Bertoli iniziò probabilmente durante la Grande Guerra, come esito di una delle numerose indagini minerarie commissionate dal parroco di allora, don Genesio Albanello, che intendeva risollevare le misere condizioni economiche della comunità. Da qui, poco sotto la contrada, una teleferica permetteva di trasportare il carbone fino ai Dugatti di San Pietro Mussolino in modo veloce ed economico. Questa miniera dava lavoro a diverse persone garantendo un salario in tempi in cui l’unica attività era il lavoro agricolo. Terminò la sua attività poco dopo la fine dell’ultima guerra.
I veri maestri nella produzione della calce erano i membri della famiglia Zoso, proprietari sia dei terreni in cui poter estrarre il carbone sia quelli dove era possibile trovare le pietre calcaree da cuocere. Scendendo dai Bertoli verso i Biasini di Chiampo, nei terreni in località le bàle si trovano proprio questi sassi bianchissimi adatti allo scopo, che venivano caricati sul carro trainato dalle vacche e portate fin su in cima, sul mòto: là tirava aria e la fornace poteva funzionare al meglio. La struttura portante era fatta di sassi mòri, di duro basalto nero che resisteva alle altissime temperature della fornace, e una volta acceso il fuoco veniva riempita di pietre calcaree disposte l’una attaccata all’altra. Il fuoco si accendeva con ‘na forcà de russe e veniva poi alimentata con venti o trenta, all’occorrenza anche quaranta ceste di carbone. Per permettere alla fornace di “respirare” c’erano delle piccole feritoie laterali. La preparazione era laboriosa e pericolosa e durava ben otto giorni, per arrivare infine a produrre circa cinquanta quintali di calce.
Le pietre calcaree, una volta “cotte”, davano la calce viva: questa, gettata in una fossa irrorata d’acqua, attraverso una pericolosa reazione chimica diventava calce spenta, pronta per essere utilizzata nella preparazione dell’intonaco e per la costruzione delle case, ma si usava pure per disinfettare le stalle e per preparare il verderame delle viti.
Si trovano i resti di una calcàra antica anche sotto i Corati, nota come la calcàra de Jàcomo, ma nemmeno i più anziani ricordano di averla mai vista in funzione. Dagli atti di morte del 1726 sappiamo che Mattio Corato, padre di famiglia di 40 anni, morse per accidente cascato sotto una gran motta di legna preparata appunto per cuocere una calcara.
La cantina – contrà Fochesati
La vita del contadino era ricca di sacrifici e di difficoltà, ma sulla tavola non poteva mai mancare un buon bicchiere di vino, quello buono, frutto della sua vigna e del sudore della sua fronte. La contrada dei Fochesati, che un tempo era detta più precisamente Fochesati dal Sengio per distinguerla dall’omonima contrada in territorio di Altissimo, è l’unica tra le nove contrade di Alvese a portare avanti questa antica tradizione con ben sei cantine ancora orgogliosamente attive. Favorita dal terreno calcareo e da una posizione ideale sia per altitudine sia per l’esposizione al sole durante tutto l’arco della giornata, questa zona riesce a dare il meglio di sé attraverso numerose cultivar di vite tra cui meritano di essere ricordate el grinto, la durèla e la senese.
Il dipinto è arricchito da una piccola targa con le indicazioni di Andrea Palladio per la costruzione di una buona cantina: “Le cantine si devono fare sotterra, rinchiuse, lontano da ogni strepito, e da ogni umore e fetore, e devono avere il lume da levante, perciocché avendolo da altra parte, ove il sole possa riscaldare i vini, che si porranno, dal calore riscaldati, diverranno deboli e si guasteranno”.
Nel dipinto, che riprende tutti i colori autunnali dell’uva e del vino, l’artista ha dato vita ad una cantina di grandi dimensioni, forse lontana dalle povere e umide stanze che si trovano nelle nostre contrade, ma la visione d’insieme permette di rivivere tutte le fasi artigianali che portano alla produzione del vino.
Autore: Elios Lescripa
Collocazione: contrà Fochesati
Data: 2013
Misura: m 2,70 x 1,80
Tecnica: pittura su pannello in vetroresina rivestito a muro
Donato dall’artista alla comunità di Alvese
Autore: Luigi Rossetto
Collocazione: contrà Fochesati
Data: 11 novembre 2012
Misura: m 1,50 x 1,50
Tecnica: affresco
Commissionato all’artista dal proprietario della casa
Arare coi bo’ – contrà Fochesati
Una volta il lavoro nei campi e l’allevamento del bestiame erano indispensabili per la sussistenza della famiglia. Con qualche bestia nella stalla, il contadino ricavava concime prezioso per fertilizzare la terra e poteva avere latte e quindi burro e formaggio; alcune famiglie riuscivano anche a guadagnare qualcosa con la vendita di un vitello o di una manza ad altri contadini o alle macellerie del fondovalle.
Ma di certo l’aspetto che oggi tendiamo a dare maggiormente per scontato è l’importanza che per secoli hanno avuto i bovini come forza lavoro. Infatti prima dell’avvento del trattore per trainare l’aratro, il carro e qualunque altro strumento agricolo c’erano i bò: il bue non è altro che il toro, castrato all’età di due anni per renderlo mansueto e più docile; per addestrarli al lavoro si iniziava ad abituarli a portare il giogo sul collo, poi a tirare qualche carretto scarico e infine si attaccavano alla coppia di bò già esperta, di cui un giorno avrebbero preso il posto.
In realtà erano poche le famiglie che potevano permettersi il lusso di allevare dei buoi, la gran maggioranza come animali da lavoro impiegava le vacche. Questi animali, nutriti come meglio si poteva e impiegati sotto il giogo nei campi, non potevano certo produrre grandi quantità di latte come avviene nelle stalle moderne.
L’aratura era un rito rimasto praticamente invariato per secoli: alla fine dell’estate, al levar del sole se tacàva le bestie al dóvo e ai vari finimenti, per poi avviarsi verso i campi sfruttando le ore più fresche della giornata. Una scena rimasta viva fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando questa pratica è stata velocemente abbandonata con la diffusione dei moderni trattori.
Bruno – contrà Fochesati
Nell’opera, sulla destra, compare Bruno Bruttomesso, il proprietario dell’abitazione, ritratto mentre fuma la pipa. Bruno è stato per oltre 20 anni capogruppo degli alpini di Nogarole, e anche nel dipinto indossa con orgoglio il suo cappello con la penna nera.
Tutte le famiglie, oltre alle vacche, erano solite tenere anche delle pecore e delle capre da cui ricavare lana, latte e qualche capretto o agnello da vendere per la Pasqua. Non lo mangiavano per la Pasqua? Magari, era una rarità riservata ai sióri!
Con l’arrivo della bella stagione le pecore, animali molto mansueti e docili, venivano portati a pascolare un paio di volte al giorno ed era un compito solitamente affidato ai bambini più piccoli. Da grandicelli, invece, il loro compito era nàre fóra co’ le vàche. I ragazzini e le ragazzine approfittavano del tempo lontano dai grandi per giocare, rotolarsi giù per le rive dei campi o per far careghéte con gli steli d’erba. E guai a farsi scappare le pecore sui prati o sui campi degli altri, sennò erano parole e rimproveri!
Portare a pascolare questi animali significava nutrirli senza consumare il fieno, che a tagliarlo e voltàrlo e seccarlo e cargàrlo sul carro e portarlo sulla tèda costava così tanta fatica e sudore…
La scena ritrae appunto un gregge di pecore, immaginate a pascolare nelle immense distese VERDI dell’altopiano di Asiago o della Lessinia, con due pastori cimbri che le accompagnano. Per Bruno è come rivivere i ricordi d’infanzia.
Autore: Luigi Rossetto
Collocazione: contrà Fochesati
Data: 2012
Misura: m 1,30 x 1,10
Tecnica: affresco
Commissionato all’artista dal proprietario della casa
Autore: Anna Raniero
Collocazione: contrà Bertocchi
Data: 2011
Misura: m 2,60 x 1,30
Tecnica: pittura su pannello in vetroresina rivestito a muro
Offerto dalla ditta Se.Pi. di Tiziano Seganfredo
Nota dell’autrice:
Il carbonaio è rappresentato all’aperto, ai margini del bosco, inserito nella natura incontaminata. Il primo cumulo a sinistra è quasi pronto per essere bruciato, quello in mezzo è acceso e la legna con scarsa ossigenazione si trasforma in carbone. A destra invece due persone lo stanno preparando per la vendita porta a porta nelle contrade di paesi anche lontani. Anna Raniero
Le carbonare – contrà Bertocchi
In questo murales l’artista ci permette di rivivere l’antica arte di far carbón, cioè trasformare in carbone la legna verde, preferibilmente di faggio, carpino e frassino. Una tecnica antica, tipica delle genti cimbre, i coloni tedeschi insediatisi nelle prealpi vicentine e veronesi le cui attività principali consistevano nella pastorizia, nel disboscamento delle fitte foreste e appunto nella produzione di carbone.
Durante la stagione invernale, il sapiente carbonàro tagliava la legna a misura e la accatastava dandole la forma di un cono, per poi ricoprire il tutto di terra e foglie. La carbonàra si accendeva inserendo dall’alto delle braci all’interno della cavità centrale, che fungeva da camino. Dopo tre giorni e tre notti, lentamente, con una combustione caratterizzata da una scarsa ossigenazione la fiamma trasformava la legna in carbonella.
Dopo la contrada Bertocchi il sentiero porta nel fitto del bosco proseguendo verso contrà Monchelati, in quel di Campanella nel comune di Altissimo. Lungo la strada, a valle, un fitto bosco di faggi viene chiamato ancora oggi “le carbonàre”. Purtroppo non ci è dato sapere se il toponimo voglia ricordare la presenza di questa attività in loco o se il legname di quel bosco nei secoli passati era usato appunto per produrre il carbone, oppure se addirittura in quel terreno si estraeva del carbone fossile. Proprio nei pressi della contrada Bertocchi, infatti, si ha notizia di sondaggi e attività estrattive di lignite sin dall’Ottocento, e nell’area sottostante oggi occupata dalla “cava del Merso”, in alcune occasioni è ancora possibile veder emergere i cunicoli delle gallerie laterali attive fino all’ultima guerra.
È stato proprio il toponimo le carbonàre a ispirare il tema per questo murales, evocando un mestiere antico di cui ci rimane solo il ricordo di un lontano passato.
La lìssia – contrà Bertocchi
Quest’opera è stata realizzata in occasione del restauro della fontana della contrada, realizzato per volontà di Igino Rigodanzo nell’intento di ricordare la memoria del fratello Girolamo, conosciuto da tutti con l’affettuoso diminutivo Jòpo.
Il ritorno della fontana all’antico splendore è stata l’occasione per pensare a un murales che ricordasse la lìssia, cioè il lungo e laborioso processo attraverso cui le donne lavavano e disinfettavano la biancheria. Nel dipinto quindi si vedono riassunte tutte le fasi della lìssia, dando vita a una scena bucolica ambientata in primavera inoltrata. Sullo sfondo, una ricostruzione veritiera della contrada di un tempo.
Per lavare le robe c’era la fontana o, in alcuni casi, una pozza ricavata con dei sassi lungo il corso di un torrente. Per le donne della contrada che si ritrovavano al lavatoio era un’occasione per scambiare qualche chiacchiera. La lìssia si faceva ogni due o tre mesi e per l’occasione ci si accordava con altre famiglie, perché richiedeva la collaborazione e l’aiuto di molte mani femminili.
Le lenzuola da lavare si ponevano a strati in un recipiente di legno, la brenta, dopodiché si faceva bollire dell’acqua con la cenere nel caldièro: quindi questa broda bollente si versava sulla biancheria, filtrandola con un tamìxo o un pezzo di tela grezza, così da evitare che la cenere più grossa entrasse a contatto con il bucato. Dopo alcune ore si recuperava l’acqua della lìssia attraverso un tappo sotto la brenta, si faceva bollire di nuovo sul fuoco e si ricominciava.
Questa operazione si ripeteva almeno tre volte, per poi lasciare la biancheria in ammollo per tutta la notte. Il mattino seguente l’acqua andava tolta dalla brenta e i panni, ben insaponati, venivano strofinati e battuti energicamente.
Le donne andavano quindi alla fontana per rexentàre. L’acqua per il risciacquo doveva essere pulita, perciò prima della lìssia si provvedeva a togliere il cocón facendo fuoriuscire tutta l’acqua della fontana, si pulivano bene le pareti delle vasche e infine si rimetteva il tappo, aspettando che si riempissero di nuovo. Il lavoro terminava con lo stendere la biancheria sui fili per l’asciugatura al sole.
Per stirare i capi lavati e asciugati si usava il sopressìn, un rudimentale ferro da stiro che veniva riempito di brónse calde così da produrre il calore necessario per sopressàre i capi lavati.
Autore: Adriana Feriolo
Collocazione: contrà Bertocchi
Data: autunno 2012
Misura: m 2,60 x 1,30
Tecnica: pittura su pannello in vetroresina rivestito a muro
Commissionato dal proprietario Igino Rigodanzo
Autore: Adriana Feriolo
Collocazione: contrà Casara
Data: 2016
Misura: m 2,60 x 1,30
Tecnica: pittura su pannello in vetroresina rivestito a muro
Commissionato dai proprietari Luciana Faedo e Luigi Nardi con il contributo del Gruppo Alvese Onlus
Nota dell’autrice:
Un tempo la lavorazione del pane era una dote delle donne di casa, che provvedevano a farne in gran quantità. Richiedeva un procedimento lungo, che iniziava la sera precedente utilizzando una piccola dose di lievito madre: el levà. Il profumo che si spandeva nell’aria della contrada mentre il pane cuoceva evoca sapori e ricordi d’infanzia che possiamo ancora riscoprire solo in alcune piccole realtà di collina come Alvese.
Adriana Feriolo
Oncò se fa el pan – contrà Casara
Dal raccolto del frumento seminato nei campi si otteneva la farina, che doveva bastare per fare el pan e sfamare la famiglia tutto l’anno. Allo scopo, ogni contrada aveva un forno o anche più di uno, che serviva a turno alle diverse famiglie. Il forno era sempre all’esterno dell’abitazione, in un angolo della corte, costruito e mantenuto funzionante con il contributo e la collaborazione di tutte le famiglie che ne usufruivano.
Nel dipinto rivive appieno ogni momento della lavorazione dell’impasto, che per tradizione era riservato alle donne. L’uomo partecipava di solito per scaldare il forno e per azionare la gràmola, uno strumento in legno che consentiva di amalgamare bene l’impasto ma richiedeva notevole forza nelle braccia.
… de luna vecia… o de luna nova… – contrà Casara
Nel mondo contadino del passato, l’uomo viveva immerso nei ritmi della natura. Così come lo scorrere delle stagioni, sin dalla notte dei tempi le fasi lunari accompagnano e scandiscono i lavori dell’agricoltura, dalla semina al raccolto, e il saggio contadino ne tiene conto ancora oggi.
Per luna nóva si intende il novilunio, cioè quando la luna non è visibile; nelle notti successive la luna sembra crescere nel cielo fino a diventare luna piena: da questo momento si può parlare di luna vècia, che inizia la sua fase calante.
La saggezza contadina dei nostri vecchi sapeva dare valore alle fasi lunari, approfittando dei benefici che ciascun momento dell’anno poteva dare al lavoro agricolo. Segreti che oggi si sta cercando di recuperare, come ad esempio attraverso l’agricoltura biodinamica.
Nel dipinto è raffigurato Antonio Nardi intento a potare le sue viti de luna nóva, favorendo così il ritardo della vegetazione, mentre nell’altra scena si dedica a spaccare la legna: il bosco infatti si taglia con la luna vècia. Sullo sfondo, il panorama sulle contrade e sulla chiesa di Alvese che si ha dalla piccola contrà Casara.
Volendo trovare una regola generale, la semina dei vegetali che crescono sotto terra, come le patate e le carote, va effettuata con luna calante, mentre al contrario la semina di vegetali che crescono sulla superficie va eseguita con luna crescente. Fanno eccezione le piante fornite di cespo, come il cavolo e la lattuga, le quali se piantate con luna calante vanno a fiore con minore rapidità.
Con la luna nuova si falciano i prati e si seminano i piselli e i fagioli. Un’accortezza: vino si travasa con la luna piena e vento da nord, affinché rimanga chiaro perché travasandolo con luna nuova e vento da mezzogiorno diventa torbido.
Autore: Alberto Marchesini
Collocazione: contrà Casara
Data:
Misura: m 2,60 x 1,30
Tecnica: pittura su pannello in vetroresina rivestito a muro
Commissionato all’artista dai proprietari Luciana Faedo e Luigi Nardi con il contributo del Gruppo Alvese
Nota dell’autore:
Oggi, pur di possedere risposte precise e sicure per eludere incertezze e responsabilità, guardiamo in basso e con un clic ci sottomettiamo all’ultima diavoleria tecnologica di turno. Una volta, invece, avevamo il coraggio di guardare in alto e di ascoltare in silenzio. Le incertezze rimanevano, ma diventavamo saggi e comprendevamo che ognuno scruta la propria misteriosa Luna, che non può raccontare ma solo contemplare e sognare.
Alberto Marchesini
Autore: Anna Raniero
Collocazione: contrà Casara
Data: estate 2011
Misura: m 2,60 x 1,30
Tecnica: pittura su pannello in vetroresina rivestito a muro
Realizzato con il contributo di Acque del Chiampo spa
Nota dell’autrice:
La mia opera rappresenta il mondo contadino nell’attività del fare il formaggio, risorsa indispensabile per molti nel nostro territorio. A sinistra la donna che munge la mucca, il vitellino che aspetta la sua razione e il gatto che già ce l’ha, descrive il sempre difficile e faticoso ambiente familiar nella tipica stalla anni Cinquanta del secolo scorso.
Nella parte destra del riquadro abbiamo il casaro intento nel suo lavoro, la stanza è ricca di particolari annotando tutto il necessari negli spazi appositi.
La finestra rappresentata nella stanza della casara è attraversata dalla luce del mattino, mentre quella della stalla dai colori del mattino presto; momenti della mungitura.
Anna Reniero
La casara – contrà Casara
Questo è il primo murales realizzato agli albori del nostro progetto e rappresenta due momenti significativi: la mungitura nella stalla e la lavorazione del latte per produrre formaggio, burro e ricotta.
La contrada è nota come casara vècia perché proprio qui un tempo si trovava il piccolo caseificio turnario a servizio di tutti gli abitanti di Alvese. Tutti i soci conferivano quotidianamente il latte munto, al mattino e alla sera, e quando si raggiungeva la quantità necessaria si poteva fare il formaggio. C’era un casàro addetto a questa mansione e di giorno in giorno, a turno, ciascuno dei soci doveva portare la legna per scaldare la caldièra di latte e prestare la sua opera per aiutare il casàro a fare il formaggio: questo era il senso del caseificio “turnario”. Dopo la stagionatura, ogni socio aveva diritto di portare a casa tanto formaggio quanta era la quantità di latte che aveva conferito.
Nei primi anni Trenta la piccola casàra vecia fu demolita per costruire un nuovo edificio vicino alla chiesa, più grande e dotato anche di un appartamento per l’alloggio del casàro, in posizione centrale rispetto a tutte le contrade e quindi più comodo da raggiungere. Si racconta che, per ottenere la costruzione del nuovo caseificio turnario, le contrade più lontane dovettero impegnarsi con gli altri compaesani: i Corati procurarono nei loro boschi le travi di castagno per il tetto, mentre i Bertoli produssero la calce per i lavori di muratura. Questo nuovo caseificio ha cessato l’attività nel 1964.
La tessitura – contrà Mastrotti
Nella povertà di una volta non c’erano soldi, quindi gran parte di ciò di cui una famiglia aveva bisogno doveva essere prodotto in casa. Così in ogni famiglia si allevava qualche pecora per la lana e si seminavano il lino e la canapa: nelle lunghe sere d’inverno, toccava alle donne il paziente compito di filare: in ogni casa si trovavano attrezzi comuni come el fuso, la mulinèla, el nàspo, el còrlo. Più raro era trovare el telàro, con il quale donne davvero esperte potevano produrre tessuti per sé e lavorare la lana, il lino e la canapa anche per altre famiglie.
Ai Mastrotti, di fronte alla casa di Ernesto e Maria, c’era una vecchia abitazione in cui viveva una signora che lavorava al telaio. Con questo dipinto i proprietari hanno voluto rendere omaggio ai nonni e ai genitori che, attraverso i loro sacrifici quotidiani, hanno permesso alla società di arrivare al benessere di oggi.
Autore: Fiorenzo Vaccaretti
Collocazione: contrà Mastrotti
Data: agosto 2013
Misura: m 2,50 x 1,20
Tecnica: pittura su pannello in vetroresina rivestito a muro
Commissionato all’artista dai proprietari Ernesto Dal Barco e Maria Nardi con il contributo del Gruppo Alvese Onlus
Nota dell’autore:
Nei ricordi infantili di Ernesto Dal Barco, ovvero negli anni ’50, in contrà Mastrotti, la sua famiglia possedeva un telaio per la tessitura. In quei tempi era un lavoro gestito in ambito familiare. Ho realizzato volentieri questo murales, seguendo il desiderio di Ernesto, per poter far rivivere, anche ai conoscenti, i ricordi felici di un tempo.
Fiorenzo Vaccaretti
Autore: Alberto Marchesini
Collocazione: contrà Mastrotti, parete degli uffici dell’azienda “Fratelli Dal Barco”
Data: 2010
Misura: m 3,70 x 2,30
Tecnica: pittura su muro
Commissionato all’artista dal proprietario Giuseppe Dal Barco
El marangon – contrà Mastrotti
Quest’opera è nata su iniziativa privata prima che il progetto murales prendesse avvio, ed è stata subito accolta all’interno dell’itinerario. Il dipinto raffigura el marangón Luigi Dal Barco al banco da lavoro, con tutti i suoi attrezzi: el segón, la sega a man, la menaróla (trapano a mano), la raspa, i ciòdi, el martèlo, la pióna (pialla), la tanàja (tenaglia)…
I boschi locali fornivano il legname da lavorare come il castagno, il ciliegio, il noce, l’acero e l’olmo.
Il marangón era un po’ falegname, un po’ carrettiere e un po’ anche fabbro. Nelle case contadine di un tempo, oppure sotto il portico, era frequente trovare el banco da marangón con alcuni strumenti da lavoro: un membro della famiglia, uno che aveva un po’ di mano, riusciva a creare qualche utensile, riparare qualche attrezzo o comunque eseguire delle semplici lavorazioni. Quelli davvero bravi riuscivano a realizzare anche carri, ruote, carretti, aratri, carriole, qualche biròcio e pure credenze, tavoli, porte, finestre, letti e scale, rispondendo così alle varie esigenze della comunità.
Tra gli specialisti in quest’arte, ad Alvese ricordiamo Francesco Chichi Mastrotto e appunto Luigi Dal Barco, detto Jìjo Pilòta, al quale l’opera è dedicata.
El scarpàro – contrà Mastrotti
L’opera è stata realizzata in memoria di Igino Mastrotto, detto Gino scarpàro, scomparso nel 2012. Gino è stato l’ultimo, sapiente artigiano a coltivare questo antico mestiere ad Alvese.
Nell’affresco, l’artista interpreta questo mestiere antico con fantasia, raffigurando invece fuori dalla finestra proprio uno scorcio della contrada dei Mastrotti.
Il padre, sin da piccolo, mandava Gino ai Menon, contrada di Quargnenta dove viveva un vecchio scarpàro da cui imparare questa arte. Un lavoro e una passione che poi ha coltivato per tutta la vita.
Un tempo le scarpe non si compravano in bottega: el scarpàro girava per le contrade e si fermava nelle famiglie, a volte anche per giorni, prendeva le misure e realizzava le calzature richieste avendo cura di non sprecare nemmeno un millimetro di cuoio più del necessario.
Le scarpe a quei tempi erano costose e quindi da tenere da festa. Per la vita quotidiana si usavano invece le sgàlmare, ottenute inchiodando la parte superiore di una vecchia scarpa, ancora buona, ad un pezzo di legno sagomato a dovere, provvisto di piccole bròche di ferro per evitare di consumarlo troppo in fretta camminando.
Autore: Luigi Rossetto
Collocazione: contrà Mastrotti
Data: 2012
Misura: m 3,30 x 2,90 m
Tecnica: affresco
Donato dall’artista
Nota dell’autore:
Quando ho saputo che ad Alvese era nata l’idea di dipingere dei murales nelle contrade non ho aspettato un minuto e mi sono recato di persona per dare la mia disponibilità per dipingere qualcosa anch’io. Questo affresco di grandi dimensioni rappresenta la scena di un calzolaio, el scarpàro, un umile personaggio del luogo che per tutta la vita ha svolto questo mestiere. Dipingendo durante i fine settimana ho ricevuto la visita di diverse persone, tra cui la signorina Valeria Bovolento studentessa dell’Accademia Cignaroli di Verona che per due sabati si dedicò a studiare la tecnica dell’affresco e provò a dipingere un breve tratto pittorico.
Ad Alvese mi sono trovato molto a mio agio, ho avuto modo di conoscere diverse persone dalla grande sensibilità per l’arte.
Luigi Rossetto
Autore: Mario Melone
Collocazione: contrà Rondini
Data: anno 2000
Misura: m 1,70 x 1,20
Tecnica: pittura su muro
Donato dall’artista alla famiglia Leonardi
Nota sull’autore:
Mario Melone, di origini romane, ha vissuto a Nogarole per diversi anni e molte famiglie della zona conservano gelosamente i suoi dipinti nel proprio salotto, spesso donati dall’artista in cambio di un favore o di un pasto caldo in compagnia. Dopo aver vissuto una vita libera, sciolto da ogni legame e pienamente dedicata alla sua arte, è scomparso nel 2002, all’età di 52 anni, a seguito di un arresto cardiaco.
Il pascolo – contrà Rondini
Questo è in assoluto il primo murales di Alvese e ricorda l’antica usanza del pascolo. Per poter risparmiare il fieno, che era prezioso e si conservava per l’inverno, il bestiame si portava a pascolare nei prati attorno alle cime del Monte Faldo e del Monte Croce del Bosco, proprio sopra ai Rondini.
Quassù si possono ancora ammirare molti esempi di casóni, piccole stalle d’alta quota che le famiglie contadine usavano per riparare il bestiame durante la notte. L’esempio più famoso e meglio conservato sono i casóni dei Verda, che si trovano a pochi passi dalla contrada.
…cerchi che raccontano… – contrà Rondini
L’opera raffigura Girolamo Leonardi detto Momi del Màja con la moglie Angela, una scena familiare un tempo comune in molte contrade del mondo contadino veneto: l’uomo intento a qualche lavoro manuale e la donna impegnata a filare, a lavorare a maglia o a taconàre qualche indumento sgualcito. Tutti mestieri tipici del filò, momento di ritrovo per gli abitanti della contrada che un tempo, dopo una povera cena, passavano la serata sotto il portico o – d’inverno – godendo del tepore della stalla. Si recitava tutti insieme il rosario, e dopo il momento di preghiera era l’occasione per scambiare qualche ciàcola, aggiustare qualche attrezzo da lavoro e anche creare, appunto, una cesta o una gerla.
Momi era un vero esperto nell’arte di intrecciare legni di diversa natura e dimensione per fabbricare séste e dèrli. In molte famiglie di Alvese alcune di queste sue opere sono ancora in uso, anche dopo molti anni. Per sposare in pieno l’idea dei “cerchi che raccontano”, l’artista ha inserito nella scena anche un bambino che gioca con il cerchio di una botte facendolo correre per la corte, memoria della semplicità dei giochi di un tempo.
Autore: Alberto Marchesini
Collocazione: contrà Rondini
Data: ottobre 2012
Misura: m 3 x 2 m
Tecnica: pittura su muro
Donato dall’artista alla sua contrada
Nota dell’autore:
Le contrade raccontano il tempo e i suoi “corsi e ricorsi” come ineluttabili cerchi senza fine. Così si rimpiange la perduta calma scandita dai ritmi della natura ma si dimentica la lotta per uscire da una vita dura e ostile. Ora più nessuno rinnegherebbe le comodità agognate e conquistate nonostante l‘odierna frenesia imposta non appaghi certo quanto i “zughi de’ bambìni”, una cesta, una scarpa o una sedia fatte a mano, i sapori dei cibi genuini, il magico bianco della lisciva o le segrete pratiche del carbone e della calce.
Soltanto qualche intrepido depositario di misteriche alchimie perpetua l’arte del vino a baluardo di sapienza e saggezza. Oggi, come allora, l‘uomo sfugge il presente e mira ad evolvere. Mettiamoci ancora tutti in cerchio a “far filò” e raccontiamoci le storie oppure prendiamoci per mano e giochiamo a “girotondo” ritornando bambini… Magari al prossimo “giro dì giostra” ci si rialza sognando un mondo nuovo!
Alberto Marchesini
Autore: Adriana Feriolo
Collocazione: contrà Corati
Data: primavera 2012
Misura: m 2,60 x 1,40
Tecnica: pittura su pannello in vetroresina rivestito a muro
Donato dall’artista
Nota dell’autore:
Un tempo la macellazione del maiale avveniva presso l’abitazione del contadino. Ricordo anch’io con affetto quel giorno di festa per tutta la famiglia, che si viveva anche a casa mia. Partendo dai racconti degli abitanti della contrada ho cercato di rappresentare una scena di vita, in memoria di quelle come se ne vedevano tante in questa valle. Oltre al maiale, ho voluto ricordare anche il prezioso ruolo delle donne nelle famiglie di un tempo: ecco allora la massaia che nutre il pollame mentre un’altra va per acqua alla fontana col bigòlo sulle spalle.
Adriana Feriolo
El màs-ciàro – contrà Corati
Immergendo gli occhi nel dipinto è come rivivere un rito antico, che si celebrava fino a pochi decenni fa in tutte le nostre contrade.
È inverno inoltrato, la neve dipinge i monti dall’altra parte della valle. Ed è un giorno di festa: oncò se copa el màs-cio! Ogni famiglia aveva il suo becàro o mas-ciàro di fiducia: saper macellare e lavorare le carni del maiale non era un mestiere ma un’arte. La mattina presto si metteva a bollire un bel po’ d’acqua per poterlo pelare. Al momento fatidico, spesso si doveva rincorrere la povera bestia per la corte.
Nella scena l’artista ha ricostruito l’aspetto che aveva la corte nel passato: il portico e le case, la fontana, il forno per il pane e, nell’angolo a sinistra, i stalòti: qui le famiglie della contrada tenevano i maiali, nutrendoli con gli scarti della cucina, gli scòri del latte, zucche, mais, mele guaste, foglie di onàro e tutto ciò che le coltivazioni producevano in più.
Di certo nella povertà di una volta il maiale era una importantissima fonte di sostentamento per le famiglie contadine, ma non poteva ingrassare come avviene oggi nei moderni allevamenti intensivi.
L’unico momento in cui la famiglia poteva permettersi di mangiare della carne fresca era proprio quando veniva fato sù el màs-cio, e ci si accontentava di qualche magra bistecca cotta sul fuoco: una vera specialità!
Segare el fén – casa privata
Margherita Dal Barco, precedente proprietaria di questa abitazione privata in via Rondini, aveva voluto ricordare con un dipinto il papà Santo mentre falciava l’erba con il tradizionale fèro da sègare, strumento indispensabile che usavano tutti i contadini prima della diffusione delle falciatrici meccaniche.
Autore: Alberto Marchesini
Data: 2010
Misura: m 1,40 x 2,50
Tecnica: pittura su muro
Commissionato dal proprietario